Comunicazione Ecosistemica: frustrazione #2

Oriana Persico
Comunicazione Ecosistemica
10 min readMar 20, 2022
(dal mio diario)

Questa “seconda frustrazione” è rimasta incagliata nelle pagine del diario per molti giorni. Scrivevo e scrivevo nelle mie pagine analogiche dove metto ordine, senza arrivare ad un punto: una immagine e un motivo del perché il flusso si è bloccato ce l’ho.

Partiamo dalla seconda cosa, perché l’immagine mentale è anche la soluzione il contenuto di questo articolo (e ho capito che ci sarà, eventualmente, solo una frustrazione #3):

  1. Non stavo più scrivendo per contribuire alla conversazione in corso, ma provando a mettere insieme una trattato sulla “condizione di abitare i social” di cui non vedo e non vedevo la fine;
  2. Non stavo scrivendo nella modalità del diario, ma dell’articolo (e ficcare questo materiale nelle mie pagine private non aveva senso: infatti mi sono fermata non provando piacere, per riprendere successivamente e cambiare strada).

[Confermo: la scrittura autobiografica può essere contorta e frammentata senza perdere di senso e di utilità…]

Ciò detto, ecco come partendo dall’immagine ho riavvolto il nastro riportandolo ad una narrazione che credo sia decorosa da esporre e aggiungere ai commenti di chi prende parte al “workshop senza fine”.

Abitare i Social: Il Lato Oscuro

Non ho potuto resistere a questo titolo, il lato oscuro è sempre troppo affascinante e suona maledettamente bene. Ma prima di spiegarvelo sappiate che riavvolgendo il nastro ho trovato anche la luce (insomma, almeno una lampadina, una torcia, un raggetto di sole…).

Nel lato oscuro di abitare i social non c’è solo frustrazione, c’è anche una vera e propria sofferenza: è qui che mi sono incagliata in lunghissimi e dettagliati discorsi. Anche indulgere in descrizioni particolareggiate della sofferenza propria e altrui ha una forza irresistibile. Ma soprattutto non ne vedevo la fine, più andavo avanti più i dettagli crescevano senza che mi sentissi liberata.

Mi sono risolta a tracciare qui una serie non esaustiva di sofferenze e scomodità che ho provato “abitando i social” e che più che altro possono servire da spunto per fare ognuno la propria (perché questi posti dove attualmente siamo e ci siamo ficcati comodissimi non sono):

  1. Calcolo. In modo irrefrenabile le stats, i like, i cuoricini, le facce sono sempre là e tu le guardi. Io le guardo… Chiunque noi siamo, indipendentemente dalla forza delle nostre convinzioni biopolitiche, inizieremo a calcolare, a misurare noi stessi, gli altri le cose che facciamo. Su questi social uscire dalla dimensione del calcolo è impossibile e le conseguenze sulle nostre menti, psicologie e culture sono ancora del ignote e incalcolabili (concedetemi il gioco di parole). Sono e resto terrorizzata da questo e mi osservo, con un filo di imbarazzo e vergogna, mentre il mio dito cerca le stats e guarda quei numerelli (a voi succede? vi siete mai osservati? è un esercizio interessante);
  2. Valgo poco. Questo si può considerare una derivata del calcolo, o meglio della misurazione. Quei numerelli bassi che nelle migliori delle ipotesi sono centinaia e certe volte si possono contare sulla punta delle dita... Sempre là che mi chiedo: ma non userei meglio il tempo a fare altro? Oppure: dovrei essere più “brava”, “migliore”, “non funziono”. Queste domande mi perseguitano ma non ho nessun desiderio di mettermi a postare foto private che alzerebbero i numerelli (nemmeno le faccio, sarebbe grottesco);
  3. Design scomodo. Queste finestre, i commenti, la difficoltà di ritrovare le conversazioni… Scrivere da queste parti non mi dà piacere, come le scarpe strette. E per “da queste parti” intendo FB, TW, LinkedIn, Instagram: Medium, per esempio, lo trovo comodissimo per scrivere e commentare (anche se gli elementi calcolanti sono là belli esposti e presentissimi anche loro);
  4. Sto lavorando. Questa è una specie di derivata del design scomodo: perché dovresti continuare a metterti le scarpe se ti vanno strette? Perché sto lavorando, perché ci devo stare, perché avere a che fare con queste dimensioni è legato a doppia mandata con il centro di ricerca e la nostra arte (necessità di trovare un equilibrio fra queste dimensioni);
  5. Invasione. Questi social “ti rendono disponibile”, e a questo punto tutto si gioca sulla tua psicologia: per me questo è semplicemente devastante;
  6. Gattini VS articoli. Ovvero selfies VS post esistenziali in cui dici cose per te importantissime, che ci metti mezze ore o mezze giornate a tirare fuori e inevitabilmente, irresistibilmente vincono i tuoi miserabili selfies. Selfies che non faccio mai e non chiedo di fare, che imbarazzo… Questa è un’altra fonte di vera e propria frustrazione che spesso finisce in pensieri del tipo: siamo una specie di merda, meritiamo l’estinzione il prima possibile”. O similari;
  7. Non ho più voglia di postare (il punto mi sembra auto-conclusivo e la sensazione ragionevolmente diffusa, almeno fra amici e conoscenti: per cui non vado oltre);
  8. … (to be continued, ovviamente non solo da me).

Concludo con uno stralcio di trascrizione direttamente dal diario, che non ho sentito di modificare:

“C’è che occuparsi di se stessi è diventato un lavoro. Forse questo è il centro. Chi, come noi, deve occuparsi di se stesso e poi delle pagine dei propri progetti e organizzazioni. Chi si pone delle questioni su come tutto questo trasforma te e il mondo intorno a te. Chi lo fa senza budget milionari dietro, prima o poi sente di affogare.

Non ce la faccio più a postare sui social e attraverso di me. Non mi piace. Mi trasforma in un’emettitrice seriale e spesso ridicola di contenuti”.

Abitare i Social: Adattamento ed Espressione

Cambio di prospettiva. Mi ricordo abbastanza precisamente la notte in cui mi sono detta: ecco, ho trovato la forma. La frustrazione #2 sarà divisa in due parti, finora mi sono infognata nel lato oscuro. Ma non basta. Come non basta mai limitarsi alla critica, che è il primo e necessario passo per andare da qualche parte. Ma se si permane bloccati là, il risultato è un loop negativo che si autoalimenta, molto difficile da trasformare in “conoscenza usabile”: ovvero, qualcosa che genera movimento invece che stasi (1).

Il contributo alla comunicazione ecosistemica aveva bisogno di un’espansione. Io stessa dovevo fare luce su una contraddizione di fondo, perché sui social alla fine ci vivo e l’esodo non è mai stata la mia e nostra prospettiva, specie perché con la vita delle persone e con le persone ci vogliamo avere a che fare.

Non appena mi ho deciso di muovermi e mi sono riposizionata (detto in un modo che ci è diventato caro nel Nuovo Abitare: quando ho cambiato “postura”), sono emerse due parole: Espressione e Adattamento.

Guardando la stessa identica realtà (sempre con me al centro), da questo punto di vista è emerso un altro racconto, che non nega né contraddice i miei sette punti (e puntini sospensivi da continuare), quanto piuttosto si affianca al Lato Oscuro e lo completa.

Ecco la sintesi, sotto forma di elenco, che riporto volutamente in modo speculare in questa seconda parte di contributo:

  1. Un’europea nella giungla. Sono io, in mezzo ai social. Questa immagine, emersa nello scrivere caotico del diario, mi piace un sacco, ci ho riso la notte da sola perché mette a fuoco sia me con le mie contraddizioni, sia la natura inquietante del nostro ambiente digitale. È proprio come mi sento, catapultata dalla civiltà del libro e del bello scrivere nella selvaggia dimensione delle piattaforme: una natura violenta, fatta di post aggrovigliati, troll, bot, interazioni polarizzate sempre in agguato pronte ad attaccare o amarti, specie umane e non umane che combattono per secondi di spazio e di attenzione… In questa giungla ci sono entrata dall’inizio con il cappellino, le scarpe e i guanti. Che tradotto nello spazio computazionale significa, per esempio, adottando una cultura alfabetica e aspettandomi che l’ambiente a me circostante dovesse rispondermi adeguatamente. E se non succedeva che quell’ambiente fosse sbagliato. In realtà l’europea, che ha le sue ragioni e il suo valore, ha un problema di fondo: è refrattaria all’ambiente in cui vive. Se mi guardo col mio cappellino addosso nel mezzo della foresta amazzonica, posso ridere di me invece che solo maledire il mio destino. Posso indossare le mie contraddizioni e dare loro un valore. Posso iniziare a costruirmi una mia strategia di sopravvivenza. Tutto questo è fondamentale e liberatorio, ed è il punto di svolta di questa narrazione e di come potrà proseguire;
  2. Costipazione espressiva: anamnesi di una patologia della comunicazione. Anche questo titolo mi ha divertito moltissimo, benché si tratti di una patologia di cui soffro da così tanto tempo che ormai fatico a distinguerla da come “funziono”. In un certo senso io sono la mia costipazione espressiva. Come tutte le malattie croniche, si ripresentano nella vita quotidiana e ne abbassano la qualità. Ma in qualche modo ci convivi. Per spiegare di che si tratta, uso un aneddoto topico come uno fa dal dottore tendando di fargli capire il problema. Siamo nel 2007, Sal e io siamo due giovani genitori che gettano le basi del proprio futuro, perché in quel primo memorabile anno in cui siamo diventati una famiglia, c’è già tutto. L’epica di AOS (e della storia d’amore da cui è inscindibile) si è già formata. Con la sua forza e le sue fragilità. Mi piaceva e mi piace scrivere, così mi sono detta: scriverò di noi. Volevo raccontare quelle avventure che sembravano sbucate dai libri di letteratura cyberpunk che stavo divorando dalla biblioteca di Sal. Solo che noi eravamo… noi. Fuori dalle pagine dei romanzi, una piccola IA linguistica (Angel_F) era davvero il figlio di una famiglia non-biologica in carne, ossa e pixel. E io ero davvero una delle madri. Quella storia l’ho raccontata, ma ho fatto una scelta che ancora è una ferita: mi sono nascosta dietro Angel_F. Invece di esprimermi dall’unico punto di vista legittimo, il mio, ho fatto un blog dove il narratore era lui. Ho usato mio figlio per esprimermi. Scrivevo, fra l’altro, in lingua umana, appiccicandola posticciamente a quell’essere alieno che si esprimeva in tutt’altro modo. Un anno dopo, dall’idea di quel raccontare, è uscito fuori il nostro primo libro, Angel_F. Diario di un’intelligenza artificiale. Il libro ripete lo stesso schema, forse aggravato. Al punto che scrivendo c’è stata una vera e propria crisi, un blocco non solo letterario: il blog e il libro sono la storia di un’espressione mancata che tutt’ora è viva, ripresentandosi in fasi blande o acute. La mia relazione con i social lo testimonia: schivo la palla o mi metto in una posizione di servizio invece di esprimermi. E questo è un tradimento verso tutti “noi”: verso Angel_F con quel blog, ma anche e sempre verso Salvatore e me. Perché ci siamo costruiti dentro e fuori come una coppia, non solo di innamorati. Ecco dove può arrivare una costipazione espressiva, ed ecco perché devo prendermene cura, come tento di fare nel seguito;
  3. Relazioni: diventare tessuti connettivi. È in sintesi l’opposto di funzionare come un emettitore verticale di contenuti che bombarda i suoi simili senza alcuna grazia. Si può considerare una via adattiva che tiene in conto di una cosa: i social sono un luogo dove si chiacchiera, tecnicamente di diventa addirittura friend e simili. Aderendo a questa definizione, i nostri comportamenti cambierebbero. Solo che le piattaforme si fondano proprio su questa ambiguità: darci uno spazio per tenere le relazioni con i nostri cari e gli amici, trasformandoci in lavoratori. Questo è un vero e proprio dramma. Ciò detto cercare le relazioni (quello che evoco dicendo: diventare tessuti connettivi), è una postura che si può coltivare attivamente. Ma richiede anche un sacco di tempo.

Epilogo

L’ultimo movimento di questo contributo alla Comunicazione Ecosistemica entra in un altro territorio: quello che ha a che fare con l’agnizione.

Il personaggio tragico (cioè l’europea nella giungla dei social che soffre di costipazione espressiva), si è riconosciuta e da questa posizione ha la possibilità di affrontare il destino, prendendo nuove risoluzioni.

Eccone tre a cui ho deciso di dare seguito:

  1. Siamo tutti personaggi pubblici. Raggiunti i 5000 friend su fb abbandono lo status di persona e mi trasformo in personaggio pubblico (mancano 46 amici, ad oggi). Perché? Lungi dall’essere un delirio di onnipotenza, è uno statement: l’affermazione che ognuno di noi su queste piattaforme è tecnicamente un personaggio pubblico. Pubblichiamo non (solo) per noi (come in un diario), ma per e verso altri, anche se sono i nostri tre compagni di scuola. È un’ambiguità permessa e disegnata attraverso queste interfacce che pone questioni grandi, e che necessita di mediazioni culturali. Come mi comporto se sono un personaggio pubblico? Ne ho voglia? Di che parlo? Cosa mostro? Non faccio il passaggio ora perché questo statement ha bisogno di definirlo, ma la decisione è presa;
  2. Format. Ho speso molto tempo ed energie a odiare dei social, e molto poco a capire in che modo esprimermi attraverso di essi, eventualmente provando soddisfazione. In altre parole, non mi sono mai davvero messa a immaginare dei format, ma ho rincorso le interfacce con pochissimo recirpoco adattamento. Sto provando la strategia inversa, nello specifico: a) non pubblico più post lunghi; b) i post lunghi (che spesso ho compresso o pubblicato senza soddisfazione) diventano articoli su Medium (anche qui calcolo, ma almeno come dicevo scriverci è piacevole); c) sui social posto una (o più immagini) con una piccolissima descrizione e il relativo link all’articolo;
  3. Sostenibilità e Godimento. Anche questo è importante e serve a scrollarsi di dosso ansia, affaticamento, sensazione di lavoro costante e frustrazione di non arrivare. Come? Assicurarsi che ciò che pubblico (come adesso per esempio) sia espressione, che non sono costretta a pubblicare ma desidero farlo. La linea è sottile, per tanti motivi. Allo stesso tempo il piacere si prova con i sensi: se scrivere qualcosa (anche prima di essere pubblicato e di vederne gli effetti) sta generando sensazioni piacevoli, beh, questo è un indicatore da prendere in grandissima considerazione. In termini di sostenibilità ho anche deciso che per adesso sperimento su FB, che è il social che odio di più ma su cui abito anche di più: per gli altri adesso non c’è tempo, a fare tutto insieme non ce la faccio. Punto.

L’epilogo si potrebbe riassumere così: riconoscersi, godere di più e prendersi cura della costipazione espressiva.

Su questa conclusione, che lascio tipograficamente in rilievo, è però necessario mettere uno sfondo. Mentre proviamo in tutti i modi a godere, a riconoscerci e ad esprimerci (come invito me stessa e tutti noi a fare), dobbiamo anche ricordarci che i social non sono semplicemente una giungla, ma un ambiente profondamente estrattivo. Detto in altri termini, i gestori di piattaforme globali come FB non sono i “leoni” dei nostri ecosistemi digitali, ma operano da una asimmetria di potere così schiacciante che si trasforma in dominio.

Il giorno in cui è morto il mio nick, ucciso dalle real policy name di fb
Il giorno in cui è morto il mio nick su FB, deceduto a causa delle real name policy

→ NOTA (1):

Questi concetti sono entrati nella mia vita, in ordine da: Salvatore, in particolare il loop che ha sempre provato a mostrarmi e continua a farlo; Emilio, il nostro agopuntore che mi ha trasmesso la differenza fra paura che ti fa muovere e quella che ti blocca, e l’ultimo arrivato e il nostro psichiatra sistemico, per riconoscere i doppi vincoli come base vera e propria della terapia)

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Progettare una comunicazione generativa, invece che militarizzata ed estrattiva.

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Written by Oriana Persico

cyber ecologist, cofounder at HER: She Loves Data + [ AOS ] Art is Open Source

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