Comunicazione Ecosistemica: frustrazione #1

Il 9 febbraio Salvatore ha iniziato una cosa bellissima. Si chiama “Comunicazione Ecosistemica. Il workshop senza fine”.
È nato perché abbiamo provato a ripensare la comunicazione di Nuovo Abitare, e “stare sui social” e basta non quadrava. Come quando guardi un quadro e un dettaglio, qualcosa, non torna.
Come al solito la sua postura hacker gli fa cercare altre entrate e uscite: altre strade.
Siamo già a due puntate: il lancio e il secondo capitolo in cui chi ha contribuito vede se stesso dentro il network di commenti come un pallino, e si legge nella sintesi di Salvatore. Ci siamo letti tutti con curiosità e godimento, immagino, e una punta di stupore.
Ho commentato a che io la prima puntata, ma mi sono presa questo weekend per buttare giù una serie “frustrazioni” che riguardano lo stato e i media attraverso i quali ci esprimiamo.
La prima riguarda la mia posizione nell’ecosistema. In altri termini: che connessioni genero? Che vita porto? Come e cosa posso attivare?
Nel 2004/2006, ai tempi del senato, non avrei avuto dubbi su come contribuire ad aprire questa porta — un varco, un portone, un metodo in realtà… — generato dalla mente brillante e sensibile dell’uomo che amo: offerta a me, al Nuovo Abitare, al mondo tutto nel suo manifestarsi dentro uno spazio pubblico.
Avrei proposto al mio referente politico di fare una call, spiegando a Fiò (Fiorello Cortiana, il senatore) e Mao (Maurizio Zammataro, il senior del nostro piccolo gruppo) quanto questo fosse straordinario e importante: potevamo elaborare in un esperimento aperto un’approccio ecologico della comunicazione, per prendervi parte e sostenerlo come alternativa percorribile agli attuali modelli dell’estrazione.
Non ho nessun dubbio che avrebbero capito. No, di più. Che avrebbero “sentito” ad un livello più profondo e fondante che è appunto la sensibilità, la postura, l’essere parte di qualcosa di più grande che ci legava e che era il presupposto di quella compresenza: il pensiero ecologico.
Avremmo fatto politica come la facevamo in quel piccolo ufficio, continuo a chiamarla “politica bella”: ascoltare, connettere, abilitare, schierarsi sui temi quando la direzione pensi che sia quella giusta.
Avendo portato io l’idea sul tavolo, avrei buttato giù una proposta su come procedere, un testo e una strategia, che avremmo rivisto insieme. Una volta raggiunto l’accordo, quella comunicazione sarebbe stata diramata attraverso di Fiò: dall’ufficio, avremmo iniziato ad attivare i nodi (le persone) che avrebbero potuto prendere parte alla discussione ed eventualmente organizzato un incontro o una pubblicazione per raccogliere i contributi della discussione, che avremmo potuto diramare aumentandone il valore per tutti.
Guardo quei pallini che Sal ha attivato con la sua sola forza, quella sfrontata capacità e voglia di esistere a prescindere da appoggi, gruppi, affiliazioni, sento due emozioni distinte: un rispetto profondo e una profonda impotenza.
25 persone si sono espresse nel/su/attraverso primo articolo: da un lato una cosa meravigliosa, dall’altro un numero piccolissimo.
Ecco il cuore della frustrazione #1: ho perso quel ruolo, quella posizione nell’ecosistema da dove potevo contribuire a “far accadere”, e i pallini restano 25: quelli attivati da Sal. Mi piaceva, mi piaceva moltissimo essere un connettore, attivare l’ecosistema da un punto privilegiato. Perché, come in agopuntura, se metti l’ago in un certo punto (per esempio “senato”) gli effetti sono differenti: i pallini si sarebbero moltiplicati, le conversazioni intensificate, gli attori stessi in gioco sarebbero mutati. Quanti, chi….? Non so: ma di più.
E quel ruolo — quella posizione — non l’ho più ricostruito. Non posso più essere questo per HER, AOS, il Nuovo Abitare.
La mia posizione è cambiata. La “politica” dal 2007 l’ho fatta attraverso l’arte. Sono convinta al 100% di questa scelta, perché oggi dobbiamo costruire “sensibilità” (più precisamente senso-abilità, la poco proponibile versione italiana di un elegantissimo sense-ability) ad un ambiente complesso che sempre meno siamo in grado di decifrare. E che il patto sociale — patto fatto di “parole” su cui siamo stati in grado di raggiungere un accordo — può costruirsi una volta che siamo diventati “senso-abili” al nostro ambiente.
Questa profonda e intima certezza, purtroppo, non cambia né cancella la frustrazione che sento e a cui cerco di dare un nome: un corpo di parole, scrivendo.
Vorrei fare questa cosa che prima era così semplice, così parte del mio ambiente: generare pallini e connessioni. Ma non ci riesco.
Il punto è: cosa mi racconta questa sofferenza? Cosa posso capire da questa “frustrazione #1”?
Molte cose, in realtà almeno due:
- osservare la posizione che occupo nell’ecosistema: sono nel punto sbagliato per aspettarmi di attivare determinate dinamiche. Ciò nonostante, continuo ad aspettarmi e/o a desiderare che quelle dinamiche possano e/o debbano avvenire: è quindi del tutto plausibile che, partendo da queste aspettative, comunico male e/o non ho rivisto la mia comunicazione, riproponendo a me stessa e agli altri quel desiderio;
- definire il mio rapporto con la politica. Che può significare due cose: ricostruire quel ruolo trovando un referente degno di fiducia, che possa promuovere questa visione; attivarmi per diventare quel nodo. Quando parlo di diventare nodo, mi riferisco nello specifico alla relazione con i movimenti ecologisti e i Verdi (italiani): il triste corpo morto di questo partito cui non sono nemmeno mai stata iscritta. Non credo nelle tessere, ma allo stesso tempo riconosco la tragedia di questa assenza in parlamento (il nostro nello specifico), e l’attualità del pensiero ecologico (l’unica narrazione che abbia ancora senso per creare convergenze). Allo stesso tempo, non frequento e non faccio parte di gruppi informali, né ne ho creati di tematici (per esempio, per coltivare la cyber-ecologia).
L’ecologia è al centro delle mia vita e di quello che ho portato dentro AOS, HER e Nuovo Abitare. Ma io non sono al centro dell’ecologia come movimento di pensiero e relazioni.
Potrei sintetizzare così la frustrazione #1, con un discreto successo di sintesi.
Devo però aggiungere un ultimo elemento: come mi prendo cura del nostro ecosistema, che è intensissimo per temi, relazioni, nodi e persone? Perché ho le idee così chiare quando immagino di farlo dalla posizione del senato e non da quella che occupo da ormai praticamente 15 anni?
Questa domanda conduce alla frustrazione #2, ovvero il prossimo commento, che riguarda le forme, l’espressione, la dimensione del piacere e del calcolo vivendo sui social network.
Dovrò passare di nuovo dal diario, sulle pagine di carta che mi servono quando ho bisogno di scrivere per creare ordine nei pezzi sconnessi e dissonanti della mia vita, e poterli affrontare.
In altri termini, raccontarli.